giovedì 17 aprile 2008

Il coraggio di un padre


Priamo si presenta al cospetto di Achille
e lo supplica di restituire ai suoi cari
il corpo di Ettore affinché possa essergli concessa
degna sepoltura.


Tolta non era ancor la mensa, e ancora

sedeavi Achille. Il venerando veglio

entrò non visto da veruno, e tosto

fattosi innanzi, tra le man si prese

le ginocchia d'Achille, e singhiozzando

la tremenda baciò destra omicida

che di tanti suoi figli orbo lo fece.

Come avvien talor se un infelice

reo del sangue d'alcun del patrio suolo

fugge in altro paese, e ad un possente

s'appresentando, i riguardanti ingombra

d'improvviso stupor; tale il Pelìdedel dëi

forme Prìamo alla vista

stupì. Stupiro e si guardaro in viso

gli altri con muta maraviglia, e allora

il supplice così sciolse la voce:

Divino Achille, ti rammenta il padre,

il padre tuo da ria vecchiezza oppresso

qual io mi sono. Io questo punto ei forse

da' potenti vicini assediato

non ha chi lo soccorra, e all'imminente

periglio il tolga. Nondimeno, udendo

che tu sei vivo, si conforta, e spera

ad ogn'istante riveder tornato

da Troia il figlio suo diletto. Ed io,

miserrimo! io che a tanti e valorosi

figli fui padre, ahi! più nol sono, e parmi

già di tutti esser privo. Di cinquanta

lieto io vivea de' Greci alla venuta.

Dieci e nove di questi eran d'un solo

alvo prodotti; mi venìano gli altri

da diverse consorti, e i più ne spense

l'orrido Marte. Mi restava Ettorre,

l'unico Ettorre, che de' suoi fratelli

e di Troia e di tutti era il sostegno;

e questo pure per le patrie mura

combattendo cadéo dianzi al tuo piede.

Per lui supplice io vegno, ed infiniti

doni ti reco a riscattarlo, Achille!

Abbi ai numi rispetto, abbi pietade

di me: ricorda il padre tuo: deh! pensa

ch'io mi sono più misero, io che soffro

disventura che mai altro mortale

non soffrì, supplicante alla mia bocca

la man premendo che i miei figli uccise.

A queste voci intenerito Achille,

membrando il genitor, proruppe in pianto,

e preso il vecchio per la man, scostollo

dolcemente. Piangea questi il perduto

Ettorre ai piè dell'uccisore, e quegli

or il padre, or l'amico, e risonava

di gemiti la stanza. Alfin satollo

di lagrime il Pelìde, e ritornati

tranquilli i sensi, si rizzò dal seggio,

e colla destra sollevò il cadente

veglio, il bianco suo crin commiserando

ed il mento canuto. Indi rispose:

Infelice! per vero alte sventure

il tuo cor tollerò. Come potesti

venir solo alle navi ed al cospetto

dell'uccisore de' tuoi forti figli?

Hai tu di ferro il core? Or via, ti siedi,

e diam tregua a un dolor che più non giova.

Liberi i numi d'ogni cura al pianto

condannano il mortal. Stansi di Giove

sul limitar due dogli, uno del bene,

l'altro del male. A cui d'entrambi ei porga,

quegli mista col bene ha la sventura.

A cui sol porga del funesto vaso,

quei va carco d'oltraggi, e lui la dura

calamitade su la terra incalza,

e ramingo lo manda e disprezzato

dagli uomini e da' numi.


(Iliade, libro ventesimoquarto)

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